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1 – MALCOM PAGANI – IL CINEMA CHE SI PARLA ADDOSSO

29 Settembre 2013

MALCOM PAGANI IL CINEMA CHE SI PARLA ADDOSSO

Articolo geniale e molto divertente di Malcom Pagani per il Fatto. Vale la pena spendere un minuto e leggerlo fino in fondo, sullo sfondo dell’ultima mostra del cinema di Venezia
Malcom Pagani per “il Fatto Quotidiano”

Trascinata come un burattino nordcoreano, lo sguardo assente, la camminata stramba dei ministri dei Monty Python, Cécile Kyenge arriva sulla terrazza dell’Excelsior, circondata da pletore di cafonissime guardie del corpo impegnate a spalancare porte e a creare cerchi della fiducia.

Nel più vicino al nucleo si muovono alcuni giornalisti. Davanti a testimoni, chiediamo di passare nella vana speranza di ascoltare il verbo. Risposta: “Non si può, c’è già la stampa chiesta dal ministro”.


Rosencrantz e Guildenstern sono morti, ma anche la memoria di Kennedy, che non può più difendersi, non si sente troppo bene. Reduce da un’appropriazione indebita (un incontro con Luxuria sobriamente titolato I have a dream), Kyenge sparisce all’orizzonte. Dopo giorni di assenza però, attratta dall’insostenibile leggerezza della seconda settimana, al Festival, ecco la politica.
In sala per ‘’Parkland” c’è l’ex Veltroni e difendersi tocca ora all’erede, Massimo Bray, accolto da un coro polifonico: “Stavolta i soldi ce li deve dà”. Loschi capannelli sotto le volte moresche. Produttori, distributori, esercenti. Tramontato il suk estivo sul Tax credit, Bray è in laguna. Il titolo del convegno-trappola organizzato in suo onore: “Il futuro del cinema: da settore ‘assistito’ a industria culturale strategica” non spiega fino in fondo.
Di strategico c’è solo l’assalto al deputato che discetta di “biunivocità”, si tortura il mento, ma resiste allo sbadiglio. Cercano di prenderlo per stanchezza. Di disegnare un dolce “o la borsa o la vita” lungo 210 minuti. 14 estenuanti interventi slegati tra loro in cui nella noia senza redenzione, le corporazioni del “settore” presentano il conto.
Parolacce come “decisori”, “criticità”, “filiera” e concetti preistorici come “l’appeal del nostro cinema negli Usa” vengono scongelati e spacciati, sfacciatamente, come assolute novità. Officia Baratta (che si sventola con un cartoncino per mezz’ora e poi, saggiamente, opta per la fuga) e modera Cicutto di Cinecittà, ma l’ingrato compito di dare vitalità a un pomeriggio funereo (e di mentire per la causa comune: “È la prima volta che ci ritroviamo a un convegno simile”) spetta al Dg per il cinema del Mibac, Nicola Borrelli.
Ogni tanto, in mancanza di gobbo, costretto a violentare la cervice per leggere i fogli, Nick si perde. E i lapsus freudiani (“Disamina” muta in “disanima”) rivelano l’idealità di base del consesso. Il suo dotto intervento, previsto sui 6 minuti, si dilata all’infinito dando la stura ai primi indegni
stravaccamenti in Sala Stucchi. Gente che parla al telefono, gente che viene e che soprattutto, va. Bray, accolto da una civilissima, silente protesta contro le grandi navi, non fa una piega. Ascolta con apprezzabile sportività sproloqui sui “monitoraggi delle dinamiche” e la “portabilità del device”.
I convenuti reinventano l’italiano per
parlarsi addosso, difendere la propria singola casa madre e approdare tra un tecnicismo e l’altro, nelle già esplorate lande del Conte Mascetti. Però Ugo Tognazzi non c’è più e per ridere, la contingenza è tragica, ci saranno altre occasioni. Nel tempo, i protagonisti dei convegni veneziani, gli unici a incassare qualcosa, hanno scelto il lamento come forma di religiosa espressione.
E per intonare il canto unico, davanti a Bray, non manca nessuno. La giovane che non ha prodotto quasi un solo film, l’adorabile
Marta Capello, che propone giuliva forme di finanziamento alternative che ai produttori di Zoran, capaci di vendere bottiglie di vino con il marchio del loro film, hanno fruttato fino a 500 euro: “Hanno brandizzato – osa in assenza di Nanni Moretti – in maniera molto simpatica”.
Sull’utilità del “
dibbbattito“, Nanni parlò invano. Così, al microfono, ognuno ha il suo warholiano “quarto d’ora”. L’ex sessantottino incazzato, Nino Russo, presidente dell’Anac. Il sosia di Paul Müller, già Visconte Cobram di Fantozzi, Carlo Bernaschi, presidente degli esercenti multiplex che legge un comunicato sovietico in cui il termine “procrastinabile” presenta insormontabili picchi di corretta dizione.
Silvano Conti, segretario Cgil spettacolo che tra una “destrutturazione” e l’altra, ‘ciancica’ una gomma americana davanti a un assopito uditorio a un metro dalla pennica, neanche fosse in un film con Mario Brega. Poi arriva Bray. Fa un discorso onesto. Parla di risorse, tempi e regole. Benevolo, giustifica la questua: “È il segno che il mondo della cultura è ignorato, bisogna investire di più, restituire dignità al patrimonio”. Non promette miracoli, ma piccoli passi.
Sul volto della maggioranza dei presenti, terrore misto a confusione. In una pausa, si scopre che la stucchevole unità di intenti “del comparto audiovisivo” sventolata a favore di pubblico: (il mantra unico è “Ringrazio l’amico che mi ha preceduto”)
è una parte in commedia. Quando si è seduti a una tavola con poco cibo e troppi affamati, non c’è tregua che tenga. Bisogna lottare per le briciole.
Pulire il desco. Farsi rispettare. Così capita che l’ignaro, conciliante
Del Brocco di Rai Cinema avvicini in un pausa il più lucido della truppa, Fabiano Fabiani, 83 anni, presidente dei produttori tv: “Ciao presidente, come stai?” E si veda investito: “A Del Brò, adesso sulla storia dei diritti m’hai rotto i coglioni” per una sua precedente presa di posizione. Faranno pace. Ma sempre di soldi si discute.

Più degli abbracci di una compagnia di giro che si conosce da decenni, può il digiuno. E dopo anni di vacche grassissime, i tempi sono magri, la vita molto agra e la signorilità senza ritorni un vuoto a perdere. Un affare da coglioni. Da anime belle senza più patria né bandiera.

A cura di giancarlo sartoretto

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